I gìgui a carneuàl (memoria storica anni 40)
Il carnevale nella nostra tradizione d’Aprica non ha mai avuto particolare rilevanza. Forse per la concomitanza con il “sunà da mars” o per la fusione di quest’altra manifestazione primaverile, nel corso dei tempi. Praticamente, in periodi in cui la liturgia accompagnava l’uomo per tutto l’anno, a carnevale si era già protratti verso la quaresima con il giorno delle ceneri che suggeriva digiuno, penitenza e rammentava il suo destino, quello di ritornare cenere. Comunque un piccolo spazio alla gola lo si dava in casa. Le mamme nel pomeriggio friggevano i <tac´ >, specie di dolci frittelle e alla sera facevano una cena fuori dal comune con polenta o patate (in abbondanza) e prodotti del maiale di recente macellato. La presenza delle maschere c’’era anche se fatta di piccoli gruppi. Per solito donne vestite da uomo e uomini vestiti da donna, con il volto coperto. La loro presenza per le strade, nel silenzio della notte, era segnalata da acuti <gìgui>. Poi entravano nelle stalle o nelle stüii, dove c’era la gente, ma senza chiedere niente, lasciando comunque ai presenti la curiosità di indovinare chi fossero. Parlando di <gìgui>, visto che siamo in zona vocabolario, e che è un termine ormai scomparso, penso di fare piacere ai miei quattro lettori spiegare che cosa s’intende per <gìgui>. Non è un fischio, non è un suono di strumento, ma è un acutissimo verso che si fa con la bocca, con una certa abilità. Oggi non più in uso, ma un tempo, aveva uno scopo preciso; lo usavano sugli alpeggi e nei maggenghi come richiamo, come saluto o per segnalare la propria presenza. (vedi per esempio in Val Belviso si davano la voce, come si suol dire da una sponda all’altra). Del resto i <gìgui> non era una esclusività nostra dell’Aprica. Abbiamo avuto modo di esperimentarlo in una simpatica occasione, in Val Chiavenna negli anni cinquanta ca. Avevamo accompagnato un giovane dell’Aprica al matrimonio in uno di quei paesi della Valle Spluga. Giunti nelle vicinanze, dovendo fare un tratto di strada a piedi in mezzo ai prati,, giunti a vista d’occhio dalla casa della sposa, abbiamo sentito risuonare nell’aria quegli strani <gigui>. Un modo per noi singolare di felice accoglienza, ma sicuramente di loro tradizione. @Luisa Moraschinelli