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Intervista a Leo Guerra

Il suo compito è quello di «tenere insieme tutti gli elementi visibili» di un evento dalla sistemazione dello spazio, ovvero il progetto espositivo (insieme a Cristina Quadrio Curzio), alla parte grafica, al catalogo. Insomma la visual identity di un prodotto che Leo Guerra (1972), laureato in Architettura al Politecnico di Milano, sviluppa con una particolare raffinatezza e originalità nel suo ruolo di responsabile del settore del design e dell’art consulting per conto del Gruppo Credito Valtellinese.
Diverse le mostre in provincia e fuori provincia che portano la sua firma nell’allestimento. Qual è il lavoro che precede quello che noi visitatori possiamo ammirare?
«L’elemento più spaesante e che produce un principio culturale creativo non è lavorare con un artista vivente, ma lavorare sull’opera di un artista estinto o lontano che si presenterà solo il giorno dell’inaugurazione – risponde -. Il mio lavoro è innanzitutto raccogliere dati, elementi, fotografie di oggetti o opere che conosco o no. L’elenco delle opere si traduce poi in componente materiale, ovvero va considerato quanto le opere misurino, come organizzare il trasporto e i vari aspetti logistici, se vengono da oltre Oceano o no, come, in che casse, via aereo o via nave, se passano per le porte. Per la mostra nel 2015 ai chiostri di Sant’Eustorgio a Milano, per fare un esempio, abbiamo dovuto segare il muro con fenditure verticali per far entrare tele di Morazzone, Nuvolone e Moretto da Brescia di 6-7 metri (che non si potevano scorniciare), in accordo con la Soprintendenza. Dopodiché bisogna procedere con una specie di identikit della vita dell’artista: serve per dare la temperatura del suo lavoro. L’allestimento deve costruire lo scenario adatto ad esprimere il mondo dell’artista che egli riproduce in un luogo diverso, trasposto rispetto al suo studio o all’atelier. Questo “sapore” va costruito con certe caratteristiche di tipo architettonico oltre che con le opere».
E nel caso del catalogo?
«Nelle pagine non va messa l’opera e basta. Per le parti introduttive chiedo agli artisti o agli eredi di svuotare le “tasche” della vita dell’artista per allineare in capo alla pagina una sorta di memorabilia dei suoi oggetti; non necessariamente oggetti creativi, ma strumenti di cui si è avvalso o che hanno ispirato un certo lavoro. Poi ci sono gli elementi secondari che sono quelli che riguardano l’assecondare la volontà degli artisti che desiderano un particolare gesto creativo e allora chi allestisce deve avvalersi delle maestranze (imbianchini, illuminotecnici, operai). Abbiamo fatto progetti per il fondazione des Treilles in Provenza, per il museo Màrmottan a Parigi, per la Triennale di Milano, le Ciminiere di Catania».
Quando progetta privilegia il lato emotivo o quello conoscitivo?
«È lo spazio che guida questo tipo di scelta. Nella Galleria delle Stelline di Milano, che è un tunnel bianco di 60 metri coperto a volta bianca, si privilegia la leggibilità e, quindi, l’aspetto razionale, riducendo la scenografia a qualcosa di minimale. Mentre nella galleria del Creval a Sondrio o in altre zone si punta a realizzare una specie di allestimento teatrale, magari abbassando l’intensità luminosa e puntando la luce con spot light su particolari di opere. Il pubblico entra in scena, entra a far parte dell’allestimento con la proiezione della sua ombra sull’opera. Dunque in questo caso si propende per un concetto teatrale e meno su quello museale».
Alcune particolarità delle mostre a Sondrio hanno colpito: ad esempio le statue delle Madonna vestite ad altezza d’uomo, i pannelli cartonati del Paesaggio costruito, i quadri a grappolo della mostra delle due banche, le tracce di vernice sui muri alla mostra di Bruno Bordoli. Perché queste scelte?

«L’obiettivo del progetto è rendere la mostra utilizzabile, fruibile in termini materiali. Le Madonne non si potevano toccare per la fragilità con cui sono costruite, allora ho portato gli occhi della scultura alla stessa altezza degli occhi del visitatore che era un modo di far entrare il visitatore in confidenza con il sacro. Nel caso del Paesaggio costruito abbiamo esposto una serie di progetti che non avevano in sé valore artistico, come riporti fotografici su pannello cartonato di power point fatti dalle scuole. Qui si doveva rendere gioioso e fruibile in senso didattico l’allestimento, prendendo in mano “parti” della mostra, passandosela a vicenda. Si doveva, in senso munariano, poter manipolare la visione delle opere. Anche per Bordoli si è trattato quasi di una mostra da toccare: lui avrebbe voluto togliere le cornici…».
Chi sono i suoi modelli?

«Ho imparato da due architetti: Umberto Riva, architetto con cui mi sono laureato nel ‘99 al Politecnico di Milano, erede di Carlo Scarpa, figura specializzata  nell’allestimento, ancora oggi disegna tutto a mano libera come una volta. E poi Giovanni Quadrio Curzio, direttore artistico delle gallerie della banca per quasi 20 anni. Era minimale, non voleva aggiungere nulla oltre ciò che l’opera d’arte dichiarasse. Diceva: «L’opera parla». Fosse stato per lui non si doveva neppure mettere la didascalia. Questi due modelli così diversi sono stati docenti involontari per me».
Vedendo i suoi allestimenti, verrebbe da pensare che lei stesso è un artista, non crede?
«No, direi di no. Importante è non prevaricare l’opera d’arte con il tuo gesto creativo. Quando si tratta di stilare l’identikit dell’artista, allora interpreto il processo creativo dell’artista, ma non mi riterrei artista, perché cerco - nel fare architettura - di azzerare il mio punto di vista sull’opera. Semmai lavoro su come sottolineare l’opera, sul contesto».La fruibilità di cui parla è il motivo per avvicinare il pubblico valtellinese alle mostre?
«Il mio incarico è quello di avvicinare il pubblico del territorio alle iniziative su cui la banca investe. La Fondazione Credito Valtellinese non ha bisogno di fare marketing culturale, portando personaggi che sono cavalli di battaglia. Facciamo ricerca su artisti sconosciuti o giovani o su movimenti estinti di alta qualità che il mercato non valuta. Allora questa è la missione culturale, quella che dovrebbero fare il sistema museale, il ministero, un’accademia. Un tempo questo c’era e avevamo autorevolezza».
E oggi cos’è successo?
«Oggi il mercato e il sistema delle aste hanno ribaltato l’autorevolezza su un’opera. Se una persona con capacità o meno vuole “fare arte” e ha il sistema del mercato a favore sale, se è contrario nonostante la capacità estetica rischia di fare fallimento. È un problema odierno. Le fondazioni bancarie in generale, non soltanto la nostra, invece attuano iniziative culturali preponderanti rispetto a quelle pubbliche. Il sistema speculativo, invece, non favorisce la conoscenza libera e aperta, punta su alcuni nomi famosi, assomiglia al calciomercato, è qualcosa di esclusivo che fa fare affari a pochi non garantendo la libera circolazione».
Come lo chef cucina un piatto delizioso che subito dopo rimane vuoto, pur avendo nutrito il commensale, anche lei “cucina” un prodotto che nutre l’anima, ma poi dopo qualche settimana, quando la mostra finisce, non c’è più. Non le dispiace?
«Ci ho pensato più volte, ma è la componente della caducità e dell’effimero. È l’aspetto stimolante di questo mestiere. Se facessi l’architetto edile al servizio del costruito, veder buttar giù una casa che hai fatto sarebbe spiazzante. Invece il fatto di continuare a costruire e “disallestire” ti inserisce in un flusso continuo. Un architetto che deve misurarsi con l’edilizia progetta per il pubblico e ormai anche per il privato oggi, ma vede realizzato il suo progetto dopo 10 anni e numerose varianti, che non dipendono da lui. Nella mia attività ci sono scadenze, è una catena e una sistema continuo, ma questo è gratificante dal punto di vista professionale».
Lei parla di allestimenti che sembrano teatrali. Qual è il ruolo della luce?
«Prioritario direi. Chi fa scenografia per il teatro deve utilizzare la luce come primo elemento. E’ più importante di quello che si espone. All’università non sapevo nulla della luce, poi 10 anni fa allestimmo una mostra per il Museo Diocesano di Milano ed ebbi la possibilità di collaborare con gli illuminotecnici del Piccolo Teatro di Milano. Anche loro come me non cercavano di imporre il loro elemento identificativo ma accarezzavano forme e spazio. Averli seguiti per qualche mese mi ha insegnato molte cose e da allora, prima di pensare allo spazio fisico, ho capito che dovevo pensare a come illuminarlo».
Dunque quali sono gli ingredienti base dell’allestimento?
«Sono lo studio della circolazione delle persone in relazione a opere e spazio, la luce e il sistema di protezione delle opere (schermi, filtri, teche, divisori, dissuasori)».
Ha mai avuto la tentazione di portarsi un quadro a casa?
«Ho delle opere che ho comprato negli anni o acquisite per via ereditaria perché mio padre era un appassionato. Non sono un feticista, però. Mi piace lavorare nel mondo dell’arte, ma non ho voglia di avere un’opera come sfondo dell’abitare con la mia famiglia. A casa ho riproduzioni su tela magari in stampa digitale di particolari di opere. Quando facciamo grandi stendardi di mostre o un manifesto in pvc, il particolare ritagliato e montato su un telaio con una cornice è già un’opera. È il bello dell’arte contemporanea che puoi smembrare ma rimane opera sempre. Questo aspetto garantisce a tutti un po’ di arte».


di Clara Castoldi

Leo Guerra
L'allestimento dedicato a Fernanda Pivano
Curioso allestimento
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